Lezione del Professor Pierluigi Lecis tenuta in classe il giorno 2 Febbraio 2009 Sullo status epistemologico della Storia' (parte 1) a cura di Claudia Aresu e Giulia Meloni.
Per cominciare, la parola ad uno storico. Con una risposta al prof. Martinez
Sono d’accordo con lo spirito con il quale professor Martinez ha voluto iniziare questo incontro, dando la parola ad uno storico: questo per me è molto importante ed io vorrei proseguire su questa linea. Dobbiamo anzitutto cercare di capire cosa fanno gli storici dando a loro la parola; come lavorano, con quali materiali, con quali metodi, quali sono almeno alcuni dei concetti chiave che ricorrono nel loro lavoro (per es. causa, verità, realtà del passato, oggettività dei giudizi storici). Prima di tentare di rispondere alla piccola provocazione del professor Martinez -se la storia ci può servire per prevedere qualcosa sul futuro-, vorrei citare uno storico contemporaneo molto importante: uno storico inglese che vive e insegna in Italia da molti anni. Rispondendo ad un gruppo di ragazzi di un liceo, durante un incontro organizzato per RAI Educational, egli affronta la vecchia questione se la storia assomigli di più alle scienze dure alla letteratura.
Come accade che si riesca a rendere presenti i fatti del passato? In che cosa può consistere la loro verità? La Storia ha un proprio metodo, delle proprie procedure, ma esse sono talmente varie e comprensive, da arrivare a rendere il valore dello storico stesso del tutto ambivalente, proteso talvolta verso la "verità scientifica", ma molte altre volte anche a quel tipo di verità che ci può essere trasmessa dalla lettura di opere come i romanzi, che sono il frutto dell'immaginazione letteraria. La Storia ha sicuramente un legame oggettivo con i fatti, un legame che può spingerla a godere di una assimilazione al metodo scientifico vero e proprio, poiché essa non può prescindere dalle fonti, dai documenti, dalle testimonianze, che possano fungere da prove, giustificando qualsiasi tipo di spiegazione storica. Esse sono fonti che dovrebbero essere pubblicamente consultabili e controllabili. Un elemento centrale della definizione dell'impresa scientifica è che la scoperta della verità possa essere sempre il risultato di ricerche aperte ad una o più potenziali confutazioni sulla base di prove e di fatti a loro volta argomentabili con lo stesso metodo. Ma il metodo storico è anche un metodo narrativo: la Storia racconta vicende, non presenta i fatti come il semplice esito di connessioni causali, ma come il frutto di scelte, di idee e di valori umani. Essa si immerge nelle visioni del mondo, nell'immaginazione dei personaggi storici, dei loro mondi personali, permettendoci di entrare in una dimensione in grado di far scorgere dall'interno come le azioni e le politiche, i grandi eventi della Storia possano trovare un proprio senso dentro una accurata ricostruzione. Questo movimento di visione dall'interno è un gesto di immedesimazione e di coinvolgimento che può rischiare, invece, di rimanere radicalmente escluso da una spiegazione puramente scientifica dei fatti. La verità dei fatti potrebbe, infatti, assumere aspetti completamente diversi. Gli eventi storici hanno sicuramente bisogno di essere riportati alla propria materialità, al loro semplice accadimento, ma rappresentano anche scelte e dimensioni della vita umana soggettiva e la loro comprensione richiede che essi vengano fatti nostri immaginativamente. In che modo la Storia riesce a comporre queste esigenze in conflitto tra loro?
Ciò che io vi dirò mira a presentare le discussioni filosofiche come qualcosa che non si sovrappone come un elemento estraneo ai problemi che gli storici stessi incontrano nel loro mestiere.
Prima di entrare nel merito, tenterò di dare una risposta alla domanda di Professor Martinez. “La storia può aiutarci a fare previsioni?” La domanda contiene secondo me un pregiudizio; cioè rinvia di per sé ad un modo di concepire la storia sul quale non tutti gli storici, filosofi ed epistemologi sono d’accordo. La domanda sembra già presupporre l’idea che la storia somigli soprattutto alle scienze della natura che hanno questo potere predittivo. Per esempio io posso calcolare, con conoscenze matematiche e astronomiche molto complesse, dove si troverà fra sei mesi il pianeta Nettu-no: la fisica è la disciplina guida, il modello più forte in questo senso. Molti si chiedono se la storia sia una disciplina di questo tipo, e applichi al suo oggetto metodi e concetti simili, cercando delle leggi regolari; e molti (storici e filosofi) ri-spondono di no, per varie, importanti ragioni: in primo luogo perché in storia abbiamo a che fare con un oggetto assai complicato, con un insieme di variabili enormemente complesso quali le azioni umane, o meglio, le modalità con cui esse si esercitano nell’ambiente naturale, le relazioni sociali e il loro mutare nel tempo; in secondo luogo perché alcune di queste variabili sembrano piuttosto diverse da quelle operanti nel campo indagato dalle scienze naturali.
Anche la fisica studia realtà molto complesse: la fisica delle particelle elementari non studia mica solo gli atomi ma an-che lì la faccenda è molto complessa però, dicono i nemici di questa idea (che la storia ‘funziona’, grosso modo, come le scienze naturali e quelle sociali), nessuna di quelle particelle è libera di muoversi come vuole. Quindi nella realtà sto-rica abbiamo non solo un enorme quantità di variabili, ma anche delle variabili particolari, gli individui umani, i quali non obbediscono a leggi prestabilite. Ciò rende molto difficile la previsione delle loro azioni; perciò non si può dire che la storia, come pensava ad esempio Braudel, si identifichi quasi con le scienze sociali. Su questa base molti pensano che invece essa somigli molto di più ad una narrazione, che mi consente di capire il significato di certi fenomeni; un corso regolare e prevedibile degli eventi umani non c’è o, per lo meno, le nostre possibilità di conoscerlo e prevederlo sono molto basse.
Perciò posso dire che la storia in realtà ha un interesse cognitivo molto diverso rispetto alle scienze naturali ed a quelle sociali. Secondo questa prospettiva occorre piuttosto aver chiaro che la conoscenza storica mira a capire il significato delle azioni umane. “Perché Cesare passò il Rubicone?” Quando mi pongo questa domanda, non mi occupo di fare previsioni sul corso degli eventi ogni volta che una persona, magari anche importante, passa un fiume. Io devo capire il significato di questa azione, cioè devo capire per esempio le intenzioni di Cesare ed i risultati della sua condotta: la fine della Repubblica, la nascita dell’Impero ecc.. Si tratta di afferrare il significato specifico di quell’azione, piuttosto che inquadrarla sotto leggi di carattere generale che riproducano eventi simili in futuro.
Alcuni problemi tipici sulla natura della conoscenza storica
a) spiegare e comprendere
Non credo che le cose si debbano contrapporre in modo così forte, ma questo schematico argomento, in risposta alla domanda iniziale del professor Martinez, ci aiuta a introdurre la natura del problema. Noi potremo anche fare degli altri esempi, per far emergere uno dei problemi più controversi nella filosofia europea a fine ‘800 e inizio ‘900, e, in forme diverse ancora discusso: la nozione di causa si è presentata come un concetto chiave di tutte le conoscenze: io conosco davvero un fenomeno quando lo so spiegare, quando so dire che è causato, regolarmente, da certe condizioni antece-denti e che produce certe condizioni susseguenti. Per esempio, capisco perché cade un sasso perché lo inquadro sotto la legge di gravitazione universale (e posso anche calcolare a che velocità cade). Gli storici usano o non usano, devono o non devono usare il concetto di causa? Questa è stata una discussione filosofica molto forte, molto vivace e contrastata per tutti gli ultimi anni dell’ ‘800 e i primi del ‘900 fra i filosofi soprattutto tedeschi. L’alternativa è stata spesso presentata come diversità tra SPIEGARE e COMPRENDERE un fenomeno. Spiegare un evento naturale significa indicarne le cause, la legge generale secondo la quale si è verificato, mentre comprendere le azioni umane singifica, per esempio,comprendere le intenzioni di chi agisce; se devo capire non la caduta di un sasso ma la condotta di Cesare, cerco di comprendere il significato che Cesare attribuiva al passaggio del Rubicone: un significato chiaramente intimidatorio, un segnale per i palazzi romani, il senato della repubblica e via di seguito.
b) L’oggettività della conoscenza storica
Un'altra domanda che possiamo porci per mettere in evidenza un’altra area problematica che riguarda la natura della conoscenza storica è: posso occuparmi di eventi passati recenti mantenendo oggettività di giudizio? Posso occuparmi in Italia del fascismo, in Europa del nazismo, mantenendo un carattere rigoroso di conoscenza, diverso da una semplice opinione, perciò indipendente dalle mie simpatie politiche, morali, religiose; posso dare al giudizio storico un contenuto che può essere condiviso anche da chi ha preferenze politiche, morali e religiose dalle mie? Questo in storia lo possiamo fare? E in particolar modo lo possiamo fare per la storia contemporanea? Qui emergono due altri problemi e due altre nozioni chiave: l’OGGETTIVITA’ della conoscenza storica e il RAPPORTO TRA LA CONOSCENZA STORICA E I VALORI politici, religiosi, morali (i valori cosiddetti ‘non epistemici’).
c) a che cosa si riferiscono i concetti storiografici? che cosa è la realtà storica?
Un'altra domanda ci porta in un’altra zona della discussione filosofica sulla storia: a che cosa si riferiscono espressioni come rivoluzione francese, creazione della città-stato, razionalismo illuminista, rivoluzione industriale? Qui si tratta di stabilire se queste espressioni linguistiche corrispondono a qualcosa nella realtà nello stesso senso in cui corrispondono a qualcosa nella realtà gli asserti come “Napoleone nacque ad Ajaccio il 15 agosto 1769”, “Cesare fu ucciso alle Idi di marzo”: queste ultime espressioni corrispondono ai fatti, a cose che sono andate in un certo modo e si può stabilire se sono vere o false. Attraverso i documenti noi lo possiamo stabilire quasi sempre. Naturalmente non abbiamo documenti chiari e adeguati su tutto, ma su molte affermazioni noi possiamo dire se sono vere o false, se non subito, con apposite indagini più o meno complicate. Si può dire lo stesso quando usiamo espressioni come “rivoluzione francese” o “rivoluzione industriale”? Consideriamo il caso tipico della rivoluzione industriale. La storiografia più recente ha dimostrato che non esiste nessun fatto preciso e circoscritto che noi possiamo chiamare “rivoluzione industriale” perché si tratta semmai di un processo molto lungo e diluito nel tempo, non c’è un giorno o un anno cui possiamo inchiodare questa nozione. In questo caso è tutto da discutere quale sia la realtà storica cui ci riferiamo; non è immediatamente chiaro, in casi del genere in che senso si possa parlare di una realtà indipendente dalle nostre rappresentazioni. Di che entità sarebbe costituita? sarebbe fatta soltanto di fatti individuali determinati come “la nascita di Napoleone il 15 agosto”, “la morte di Cesare” ecc.?o invece la realtà storica comprende anche entità diverse da fatti individuali? Più in generale possiamo chiederci: come riusciamo a stabilire nell’un caso che una rappresentazione storica è vera o falsa? Questi sono problemi che riguardano la METAFISICA DELLA STORIA, quella branca della filosofia che studia di che tipo di entità è costituita la realtà storica. Dietro questa domanda naturalmente c’è una vecchia disputa filosofica, che si ripropone storicamente in varie forme: “la realtà intorno a noi è fatta soltanto di individui, di cose individuali o esistono anche entità non individuali? Per esempio: che cosa è un partito politico? Che cosa è la repubblica italiana? E’ una cosa diversa dall’insieme degli italiani? Che cosa è la polizia? E’ l’insieme dei poliziotti in divisa oppure è qualcos’altro? E’ un palazzo della questura, la sede del ministero degli interni?”
Questi problemi si discutono a volte anche in sociologia. La classe sociale che cosa è? E’ un’entità diversa dagli indivi-dui, ad essi superiore e trascendente oppure è l’insieme degli individui che appartengono ad un gruppo sociale? La real-tà sociale è fatta di individui che appartengono al ceto medio ed il cui comportamento ha conseguenze economiche, politiche ecc. Se si ammette che esistono soltanto entità individuali, tutte le espressioni astratte (come rivoluzione indu-striale, partito, chiesa etc.) non hanno un referente diretto nella realtà, sono soltanto nostri modi di dire per parlare di ciò che fanno i singoli individui (questa posizione, hce ha una storia, molto lunga) si chiama NOMINALISMO. Ma c’è an-che chi sostiene il contrario: la vostra famiglia esiste, come tutte le istituzioni, perché ha effetti accertabili sulla vita del-le persone e della comunità (dunque esistono entità ‘astratte’, cioè non individuali, ‘universali’, collettive. Questa posi-zione ricorda in qualche modo la concezione realista degli universali nella filosofia medievale).
Riassumendo: si possono radunare in tre grandi aree le discussioni filosofiche intorno alla natura delle conoscenze storiche.
L’AREA DELLA METAFISICA, comprende le domande appena citate: come è fatta la realtà storica, che tipo di entità costituiscono la realtà storica. Però si estende anche ad altre questioni. C’è una provvidenza divina nella storia? C’è una fine a cui la storia tende? In metafisica si discute di queste questioni.
L’AREA ERMENEUTICA . Ermeneutica significa “arte dell’interpretazione”; una grande tradizione di pensiero molto influente per tutto il ‘900 dentifica un tipo di conoscenza particolare, che opera soprattutto con riferimento alle azioni umane, fondata sulla capacità di afferrare il significato degli eventi collegandoli in un insieme, in una visione totale. Una tipica immagine della storia di questo tipo è quella di Hegel per lui la storia è la storia della libertà.
Afferro subito alcuni significati banali, per fare ciò non ho bisogno di cercare cause ed effetti ma uso l’arte dell’interpretazione.
AREA EPISTEMOLOGICA I filosofi dell’interpretazione sono soprattutto di area tedesca. I filosofi del mondo an-glosassone e americano si sono interessati DEL PUNTO DI VISTA EPISTEMOLOGICO della storia cercando di vedere soprattutto come si costruiscono le nostre rappresentazioni storiche a partire proprio dal modello di funziona-mento delle scienze della natura.
Molti epistemologi di tradizione analitica (come Hempel e Popper), assimilando il lavoro della conoscenza storica al lavoro delle scienze della natura, hanno sostenuto che anche se ci sono delle piccole differenze sostanzialmente anche i sociologi, gli storici ecc. lavorano con gli stessi concetti, gli stessi metodi e gli stessi obbiettivi degli scienziati delle scienze della natura. Anche le scienze umane cercano cause ed effetti e leggi del corso storico-sociale; in particolare gli storici mirano a spiegare le azioni umane servendosi di leggi psicologiche, sociologiche ecc.. Ma questa tesi non è stata pacificamente accettata cnhe nella filosofia analitica
Un caso discusso dagli epistemologi è questo: l’assassinio dell’arciduca d’austria a Sarajevo provocò lo scoppio della prima guerra mondiale. Gli storici e i filosofi che privilegiano l’idea della storia come scienza hanno appunto sostenuto che qui il punto è cercare di capire le leggi di carattere psicologico, sociologico ecc. per cui dell’avvenimento che ha provocato lo scoppio della 1° guerra mondiale. Bisogna ricorrere alla psicologia per capire innanzitutto quali moventi hanno spinto l’assassino. Occorre poi verificare la situazione economica, sociale, quella diplomatica dei rapporti tra le grandi potenze ecc. e si noterà che in questo complesso di circostanze c’è una certa regolarità: quando ci sono forti ten-sioni economiche, politiche internazionali, un evento come un attentato può avere la forza di determinare una sequenza di eventi molto importanti.
Viceversa lo storico ed il filosofo che non vedono un legame stretto tra la storia e le scienze empiriche, anzi tendono a vedere le analogie tra la letteratura, il racconto, il romanzo addirittura, l’immaginazione poetica avranno buon gioco a dire: ma di che legge si parla nel caso specifico? Non c’è nessuna legge per cui ogni volta che viene assassinato un arci-duca scoppia una guerra mondiale.
Il conflitto che ho appena descritto in termini elementari e molto schematico è rappresenta il contrasto tra due famiglie teoriche che potremo chiamare “naturalisti” e “antinaturalisti”.
I naturalisti sono ovviamente quanti sostengono che la conoscenza storica è molto simile alla conoscenza dei fenomeni naturali e lavora sulla base di leggi, di scoperta e accertamento di nessi causali tra gli eventi. Per i naturalisti nella natura come nella storia c’è una relativa uniformità del comportamento dei fenomeni, anche se l’uomo è sicuramente diverso da un automa, da un sasso, da un animale ecc. e non si muove solo sulla base di cause ed effetti fisico- biologiche; c’è comunque anche nella storia una certa regolarità e ‘legalità’ degli eventi.
Gli antinaturalisti dicono invece quello che abbiamo già visto: non ci sono leggi, c’è una scarsa uniformità di compor-tamento degli uomini, ci sono situazioni sempre diverse. Alcuni hanno sostenuto che in realtà lo storico è interessato al perché un certo evento è accaduto in una certa circostanza lì, individuando un NESSO CAUSALE SPECIFICO (un nes-so che lega due eventi particolari, che potrebbe non legare mai eventi dello stesso tipo in futuro e potrebbe non averne legato mai in passato).
Naturalmente ci sono state posizioni estreme, che hanno persino negato che il concetto di causa si possa usare in storia. E’ importante a questo proposito un grande filosofo del primo ‘900, Wilhelm Dilthey , il quale pensava che la storia non fornisce spiegazioni causali con un argomento particolare; in realtà lo storico fa a livello specialistico quello che tutti noi facciamo nella vita quotidiana quando comprendiamo il significato delle azioni altrui. Ma oggi non possiamo andare oltre un accenno su questo tema; che, insieme alla discusione tra posizioni naturalistiche ed antinaturalistiche si è spesso ripresentato nella filosofia contemporanea, in varie forme, sempre più complesse, ed in diversi contesti culturali.
La conoscenza storica secondo Max Weber
Perché parlare proprio di Weber? Egli proviene dallo stesso ambiente culturale di Dilthey, lo storicismo tedesco con-temporaneo (fine Ottocento- primo Novecento tedesco), ma ha seguito una linea teorica diversa ed estremamente inte-ressante. Si è impegnato per dimostrare che questo contrasto tra naturalisti e antinaturalisti è sbagliato, perché la cono-scenza storica ha bisogno di diversi approcci al suo materiale e non può essere rinchiusa in nessuno dei due schemi con-cettuali. LA posizione di Weber coinvolge tutte e tre le aree filosofiche che abbiamo individuato come tipiche della ri-flessione filosofica sulla conoscenza storica: metafisica (di cosa è fatta la realtà storica) , interpretativa (bisogna anche saper cogliere i motivi, le ragioni che guidano le azioni degli individui), epistemologica (anche la storia ha bisogno del concetto di causa e ha bisogno di ammettere una certa regolarità degli eventi). Il pensiero di Weber è interessante da tutti e tre questi punti di vista; e propone una particolare forem dell’ideale di oggettività conoscitiva.
Weber ha teorizzato la tesi della AVALUTIVITA’ degli studi scientifici, che è stata, dopo di lui, oggetto di innumerevoli studi e controversie. Egli ha sostenuto che la conoscenza storica è una conoscenza interpretativa, rigorosamente scientifica, che ha a che fare con l’accertamento rigoroso e oggettivo di rapporti causali tra i fenomeni. Alla storia come disciplina scientifica rigorosa non appartiene affatto il compito di formulare giudizi di valore morale, politico; essa è in grado produce verità OGGETTIVAMENTE controllabili ( ha un alto potere descrittivo) benché il lavoro degli storici sia ovviamente influenzato dai valori della società e della cultura a cui appartengono.
STORIA:
• OGGETTIVA
• AVALUTATIVA anche se condizionata da valori NON EPISTEMICI (i valori epistemici sono quelli tipici della conoscenza scientifica come la coerenza, la semplicità, il potere di prevedere e simili. O-ckam è il primo classico che ha reso esplicito questo criterio di conoscneza: per spiegare un fenomeno non dobbiamo scomodare più concetti (e nemmeno più entità) di quelli che bastano, usiamo la via più semplice. I valori non epistemici sono i valori religiosi, politici e morali che ci condizionano, che non appartengono alla sfera della conoscenza e che tuttavia influiscono sino a un certo punto sulla forma-zione delle ipotesi. .
Faccio l’esempio classico (negli scritti di Weber) della battaglia di Maratona, caso discusso dallo stesso Weber in pole-mica con un grande storico della storia antica suo contemporaneo: Meyer.
Ai primi del ‘900 perché mai noi studiamo la battaglia di Maratona e la consideriamo una cosa importante: dal punto di vista quantitativo è un fatto di poco conto rispetto ad altre battaglie, quindi perchè mai la battaglia di Maratona è così importante? Per rispondere dobbiamo introdurre l’idea che aveva Weber del ruolo dei valori non epistemici nella scelta che gli storici fanno del loro campo di indagine: lo storico non si trova di fronte la realtà storica già pronta, definita ed articolata; al contrario, si trova di fronte ad una TOTALITA’ potenzialmente INFINITA DI DATI e c’è quindi bisogno di un criterio di scelta che selezioni i fatti o i dati RILEVANTI rispetto a quelli che non lo sono rispetto ad un certo interesse cognitivo; di fronte ad un “oceano di informazioni” gli storici hanno bisogno di criteri di selezione. I primi criteri di selezione sono quelli che derivano dalla cultura d’appartenenza: per noi in quanto discendenti dell’antica civiltà greca, la battaglia di Maratona e le guerre persiane in generale sono dei fatti importanti perché se quella battaglia non ci fosse stata o non fosse stata vinta dagli ateniesi, l’intero corso storico della nostra civiltà sarebbe stato diverso; la Grecia sarebbe divenuta una provincia dell’impero persiano, sottoposta ad un regime di tipo TEOCRATICO e non avremmo visto il fiorire delle libere città-stato elleniche.
Quindi il criterio di selezione degli eventi è, nel campo delle scienze umane, influenzato dai valori della cultura a cui lo storico appartiene. In questo senso i giudizi di valore hanno un ruolo epistemico determinante e positivo; questo non è un fatto negativo ma POSITIVO, è una condizione indispensabile per iniziare una ricerca storica ed è la molla del no-stro interesse per il passato.
Lasciamo un momento da parte Weber, per qualche considerazione più generale su che cosa ci spinge a studiare il pas-sato e sull’utilità generale di questa conoscenza. Conoscere il proprio passato è una delle vie più importanti con cui noi stabiliamo chi siamo e costruiamo un mondo COMUNE di credenze e di regole di vita. C’è un bisogno profondissimo di conoscenza storica: senza passato non siamo nessuno, non sappiamo orientarci, nella vita (anche se, come ci insegna Nietzsche) l’eccesso di conoscenza storica può essere dannoso e paralizzante.
Torniamo a Weber, il quale diceva che “siamo essere culturali”, cioè abbiamo bisogno di prendere posizione di fronte agli eventi; ma questo pone particolari problemi per una loro descrizione corretta. Qui inizia la parte critica di Weber rispetto all’influenza dei valori (non epistemici): naturalmente non è che, in quanto storico, posso scrivere ciò che voglio sulla attaglia di Maratona, in funzione dei miei giudizi di valore morali, politici etc. Lo storico però non deve costruire miti e favole ma deve obbedire a regole di buona conoscenza, deve puntare alla verità. Una volta selezionati i dati rilevati deve cercare di stabilire nessi causali ACCERTABILI in base alle fonti, e a questo punto i giudizi di valore, che inizialmente hanno orientato l’indagine, hanno esaurito la loro funzione epistemica positiva, perché noi dobbiamo rispettare semplicemente le buone regole metodologiche della conoscenza dei fatti storico-sociali.
Lo storico deve dimostrare che davvero la battaglia di Maratona ha avuto certe conseguenze ed era il frutto di certi an-tecedenti e questo lo deve documentare: una volta che l’ha documentato, che egli, o i suoi lettori siano mussulmani, induisti o cristiani, comunisti o liberali non conta più niente. Qualunque ideologia e punto di vista io abbracci, io sono in grado di stabilire e controllare l’ipotesi che ci siano dei nessi causali tra la battaglia di Maratona e gli eventi antecedenti o successivi. Quindi,lo storico da un lato è senz’altro guidato, nellas celta dell’oggetto su cui indagare, dai valori della sua cultura di appartenenza; dall’altro egli deve lasciarsi alle spalle le sue credenze etiche, religiose ecc. e procedere con tecniche di indagine (causale) e regole (rispetto delle fonti) che ci consentono di accertare delle verità che valgono per tutti; chiunque, applicando quei metodi può accertare l’esistenza di quei nessi causali. Lo storico non può (o meglio, non deve) fabbricare la verità su misura delle sue ideologie o di interessi esterni all’indagine. Deve, non solo fare rico-struzioni psicologiche, ma anche avvalersi di tutto il sistema di conoscenze possibili nel campo delle scienze umane: sociologia, economia, geografia ecc.
Weber era aperto in questa direzione: lo storico non è colui che con la sua immaginazione ci dà un certo racconto fami-liare e plausibile di come sono andati certi fatti, non assomilgia ad un narratore nel senso letterario della parola, ma de-ve avvalersi di conoscenze scientifiche rigorose, di leggi dell’economia, della psicologia, dell’economia politica, deve servirsi di questo apparato strumentale come di un apparato indispensabile per ricostruire singoli fenomeni del passato nella loro fisionomia specifica.
Lo storico non ha il compito di cercare leggi o di fare previsioni ma si serve delle leggi che tutte le scienze gli mettono a disposizione per capire una certa regolarità psicologica e comportamentale delle azioni umane.
Weber quindi ci dice che nella storia, da un punto di vista metafisico, esistono solo INDIVIDUI ed era perciò un NO-MINALISTA RADICALE (la storia è fatta delle azioni degli individui e dell’intreccio di queste azioni). Ai concetti a-stratti come (capitalismo, stato, setta e simili) non corrisponde altro che la vita e le relazioni fra gli individui, non esiste nessuna entità ‘superindividuale’). Questi concetti (che Weber definiva tipi ideali) costituiscono una conoscenza di ca-rattere generale: per esempio, per sapere come funziona la società capitalista devo sapere cosa significa capitalismo, partito politico, democrazia, inflazione ecc..
C’è però anche una dimensione interpretativa importante della conoscenza storica come conoscenza di fatti ed azioni umani. Weber ha considerato importantissimo lo studio delle ragioni e dei motivi per cui un individuo compie una certa azione.
S è aperto in tutte queste direzioni del sapere e non ne privilegia nessuna, lo storico può formulare giudizi OGGETTI-VAMENTE VALIDI, indipendentemente dalle preferenze di valore politico, religioso e morale di chicchessia. Produce giudizi che ci dicono come sono andate le cose: che “ci piaccia” o meno il passato storico è strutturato in un certo modo che noi non possiamo cambiare. Weber crede nell’oggettività e nella verità del sapere storico.
Queste idee di Weber si possono ritrovare anche nel dibattito attuale in posizioni recenti. Ma di questo parleremo, se possibile, in un’altra occasione.
Lezione del Professor Lecis - 2 Febbraio 2009
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