LEZIONE DI PROFESSOR MANZO 15 Gennaio 2009
L’argomento centrale del nostro incontro è la trasformazione della Sardegna da Regnum Sardiniae autonomo a parte Regno d’Italia che abbraccia quindi, grossomodo, un periodo che va dal 1720 al 1861 che non è la data della fusione perfetta del Regnum Sardiniae con il Regno d’Italia ma piuttosto una data importante per quanto riguarda il problema della proprietà della terra.
E’ la data definitiva, anche se poi di definitivo in Italia c’è poco e,. in genere, fatta la legge per l’applicazione trascorrono sempre ulteriori anni. Infatti, ancora nel 1865 si richiama, infatti, la necessità di eliminare gli ademprivi, terre che appartenevano alle comunità, che comprendevano boschi, e terre incolte nelle quali chiunque appartenesse a quella comunità poteva far pascolare bestie, andare a raccogliere legna, raccoglier ghiande per far ingrassare i maiali e quant’altro.
Questo fatto (la recinzione dei campi aperti) non è un fenomeno della Sardegna in particolare ma riguarda tutte le nazioni europee nel corso del 1700 e continuò anche nel 1800. In tutte le nazioni europee anche chi non godeva di particolari fortune e non aveva il possesso della terra si vedeva garantita comunque la possibilità di avere assegnata una striscia di terreno aperto.
Quindi ogni città, ogni villaggio godeva della proprietà di terreni che venivano assegnati a strisce longitudinali ai vari capifamiglia.
I solchi dove si seminava con fagioli, legumi in generale, o altri ortaggi di cui la popolazione necessitava per il sostentamento quotidiano avevano prevalentemente questa configurazione, erano campi aperti non come quelli che siamo abituati oggi a vedere recintati. Come ho già detto, inizialmente la trasformazione non avviene in Sardegna, dove si estenderà successivamente, quanto nell’Inghilterra dei primi del 1700.
I provvedimenti di recinzione determineranno problemi sociali. Dai campi aperti la maggior parte dei contadini nullatenenti ricavavano un sostentamento quotidiano che viene a mancare.
Era necessario con l’aumento della popolazione che la produzione agricola aumentasse. Le teorie dei fisiocratici, le prime teorie di economia politica subito dopo la pratica mercantilistica: (tipica politica della Francia del ministro Colbert che sovvenzionò le fabbriche di tessuti, di vetri, di porcellane, ecc., e che prevedeva l’intervento dello Stato nel processo economico che intendeva mantenere quanto più possibile nelle sue casse metallo prezioso).
La prima vera teoria economica è quella dei fisiocratici, Quesnay affermava che l’unica ricchezza è quella che viene dalla terra, dal lavoro agricolo. Come far fruttare sempre più la terra, e aumentare quindi la produttività? Rendendo i lavoratori agricoli proprietari terrieri, poiché in questo modo i lavoratori si sarebbero impegnati non badando alle ore lavorate.
Nella Sardegna del 1700 la parola d’ordine è appunto abolire la comunità delle terre e renderne la proprietà privata.
Ai primi del ‘700 si è combattuta una guerra per la successione al trono di Spagna, una mini guerra mondiale alla quale partecipano le grandi potenze: l’Austria degli Asburgo, gli inglesi, contro il Re dei francesi che mirava a mettere un suo nipote sul trono di Spagna.
La situazione un po’ ingarbugliata si trascina per alcuni anni. Alla fine il duca di Savoia, alleato dell’impero absburgico e degli inglesi riesce a ottenere, un po’ malvolentieri, la Sardegna dopo uno scambio con gli Asburgo d’Austria che ottengono la Sicilia, ben più ricca ed economicamente più redditizia.
Vittorio Amedeo II di Savoia come compenso non ottiene soltanto il governo della Sardegna ma anche il titolo di re. Nasce così il Regno di Sardegna che non più Regnum Sardiniae, vice reame della Spagna, diventa vero e proprio Regno comprendente appunto la Savoia, il Piemonte, la Liguria, la contea di Nizza e la Sardegna.
Il nuovo Re promette (e questo era uno dei vincoli del trattato di pace) di rispettare il modo in cui la Sardegna, ormai da secoli, si governava. Infatti, che il viceré fosse aragonese, che fosse spagnolo ecc. la Sardegna godeva una vera e propria autonomia.
La Sardegna, sicuramente ne avrete sentito parlare, aveva goduto di un’autonomia particolare fin dal 700 perché con l’incapacità dei bizantini di controllare le rotte del mar Mediterraneo, pian piano i sardi di erano costruiti dei piccoli “regni autonomi”, i Giudicati.
Era stato un periodo importante perché durante il periodo dei Giudicati la Sardegna, soprattutto grazie a Mariano ed Eleonora, il giudicato d’Arborea, si era data una legislazione, con la Carta de Logu.
Per i Piemontesi, o meglio i Savoia, che prendono possesso della Sardegna, rispettare anche la Carta de Logu, che era il modo in cui in Sardegna si amministrava la giustizia, si rispettava la convivenza giuridica.
In questo periodo, che dalla fine del 1700, abbraccia un arco di cinquant’anni, la proprietà da feudale dovrà diventare borghese, da imperfetta perfetta. La proprietà deve essere PERFETTA, la perfezione della proprietà è la capacità di decidere, da parte del proprietario, di tutto quanto necessita per far fruttare la tanca. Qual era la situazione?
Grossomodo la maggior parte o almeno la metà del territorio consisteva in un demanio feudale (demanio, termine usato ancora oggi, sono tutte le proprietà che non sono di uno specifico proprietario ma dello Stato, per esempio le spiagge, i fiumi…), che comprendeva tutte le terre in possesso dei feudatari. C’erano anche terre di proprietà privata, tanche, ed erano recintate, il resto delle terre era costituito da “vidazzoni” (termine che gli storici sono soliti supporre che la parola derivi da habitacione), composte da terre comuni, divise in due parti, una destinata alla semina, l’altra al pascolo, in modo da consentire la rotazione (che permetteva alla terra di ottenere un fertilizzante naturale), nelle quali era vietato recintare e infine da «segada de sa yua», terreni da semina, annualmente ripartiti fra coloro che volevano coltivarli.
Questo regime di comunione portava l’agricoltore, che in genere lavorava sempre terreni diversi, o a sfruttarla senza misura o ad allontanarsi dalla terra e non sentire più passione per il proprio lavoro perché non vedeva un futuro.
Qualcuno dice che in fondo il sentimento della proprietà nasce nei piccoli proprio nei primi anni di gioco: provate a levare un giocattolo a un bambino, vi dirà “è mio!”, perché vede proiettato in quel gioco qualcosa di sé, lo sente come proprio perché ci ha lavorato con la fantasia, ugualmente avverrebbe per le terre, più uno ci lavora, più sente proprio il terreno, per questo si dice che la proprietà è naturale, ed è per questo che una persona tende a considerare proprietà ciò su cui ha investito fatica, rispetto a cui ha investito dal punto di vista mentale, con la fantasia, e rispetto a ciò a cui un agricoltore si è dato da fare particolarmente, ha sudato.
Cos’è appunto la vidazzone? È la parte destinata a semina del terreno comune, l’altra parte era dedicata al pascolo (paberile). Assumevano diversi nomi a seconda delle località e a seconda dell’uso che se ne faceva. Si poteva infatti pascolare il bestiame rude (in questo caso prendeva il nome di “padru”) o il bestiame mansueto (“salto”), o ancora terreni dedicati al pascolo comune (“cussorgia”- utilizzato soprattutto nella zona dell’Iglesiente). Esistevano dunque questi campi aperti che occupavano la maggior parte del territorio e sui quali si esercitavano gli ademprivi, appunto la capacità o il potere da parte di ogni cittadino di andare a far legna, di far pascolare il bestiame, di raccogliere le ghiande ecc.
Quindi il regno sabaudo inizialmente non modifica i rapporti di proprietà.
Trova questa situazione: il soggetto principale era la comunità, a parte i feudatari chiaramente, c’era un regime di rotazione obbligatorio, c’è il godimento degli ademprivi, e c’era anche il nomadismo dei pastori.
Questo era un problema, il conflitto, ormai quasi superato, tra pastori e agricoltori è sempre esistito, il pastore aveva bisogno di campi aperti attraverso cui far passare le pecore, le proprie greggi, non certo di terreni recintati.
L’agricoltore ha la necessità che le pianticelle non vengano brucate dalle pecore, che il proprio campo, sul quale ha lavorato, non venga rovinato, che il raccolto non venga compromesso dalle greggi dei pastori. Uno dei primi ministri savoiardi per gli affari della Sardegna, il Bogino, fece un primo passo verso la trasformazione dell’isola.
Le prime forme d’intervento dei Savoia in Sardegna avvengono quando viene nominato ministro per gli affari della Sardegna Lorenzo Bogino, il quale, è sufficiente vedere quali sono le riforme che ha promulgato, è particolarmente attivo: Istituzione a Cagliari di una Accademia di Chirurgia; Limite al numero di luoghi sacri che godono di immunità (nel ‘700 ancora, qualunque criminale entrasse in una chiesa non poteva essere toccato); Limite delle categorie che godono di immunità (il nobile, l’ecclesiastico, godevano di un tribunale particolare); Nuovo piano per l’Istruzione Inferiore, (lingua italiana obbligatoria); Riordino dell’amministrazione e sfruttamento delle saline, Ricognizione del patrimonio minerario; Opere di bonifica nella Baronia di Quartu e nel distretto di Pula; Rifondazione dell’Università, prima di Cagliari poi di Sassari, con però docenti piemontesi; Ripristino dei Monti Frumentari e Monti Granatici, delle sorta di Banche che concedevano prestiti a interessi molto bassi, quelli che oggi noi chiameremmo credito agrario. Essi prevedevano una dotazione in grano. Similmente i Monti Frumentari mettevano a disposizione dei contadini meno abbienti le sementi per le semine, impedendo così che essi finissero nelle mani degli usurai. Altra importante riforma fu l’Editto per la composizione dei Consigli Civici e Comunitativi.
Molto importante quindi l’intervento del Bogino, nella seconda metà del ‘700, anche se egli non sembra avere precise teorie di riferimento. Qualche storico parla di Riformismo velleitario, perché non modifica il quadro d’insieme, viene anche citato come una sorta di Riformismo senza riforme nel senso che si trattava di interventi singoli che miravano a migliorare qualche aspetto della realtà ma non incidevano nella comunità della società sarda. Quindi Riformismo velleitario sta a significare una scarsa incisività del governo, una debolezza degli strati borghesi, scarso livello di accumulazione, predominio delle forze feudali.
Il primo che si occupa in modo teorico della necessità di trasformazione della situazione agricola in Sardegna in modo deciso è padre Gemelli. Certo, anche lui non fa riferimenti particolari ai fisiocratici.
Nel 1776 scrive un libro dove afferma che le cause del decadimento della Sardegna, della povertà estrema dell’isola risiedono nel difetto di libera proprietà delle terre; difetto di casine (in cui disporre gli attrezzi); difetto di una società durevole tra proprietario e coltivatore qualora il proprietario non lavorasse direttamente; difetto di chiusura delle terre.
Analizziamo la situazione storica in cui si trovava la Sardegna a fine ‘700. Tutto nasce dal tentativo dei francesi (i segni ci sono ancora, per esempio nel palazzo Boyle, i segni delle palle di cannone dei cannoneggiamenti del 27 Gennaio 1793) di occupare la Sardegna: il 14 Febbraio sbarcano nel litorale di Quartu 4000 soldati. Il tentativo fallisce, anche per la difesa dei sardi.
I “patrioti sardi” intendono vedere riconosciuto il loro valore. I viceré (che fosse il Balbiano prima di questo periodo, o il Vivalda quando i patrioti sardi avanzano le prime richieste) non erano stati in grado di difendere l’isola. Gli Stamenti che erano gli organi di governo autonomi e sarebbero dovuti essere sempre consultati dal re, chiedono a gran voce il ripristino della tradizione.
“Noi siamo il Regno di Sardegna, mandiamo degli ambasciatori su a Torino e chiediamo il rispetto dell’autonomia”. Nell’estate del 1793 gli Stamenti (organi di rappresentanza di gran parte della popolazione: militare, dei nobili; ecclesiastico, del clero; reale, dei rappresentanti delle città, cioè i borghesi) pronunciano le Cinque Domande, in un memoriale indirizzato al sovrano:
1. che il Parlamento, mai riunito dai re sabaudi, fosse convocato come già dai re di Spagna, ogni dieci anni;
2. che si riconfermassero gli antichi privilegi del regno;
3. che, fatta eccezione per la carica di viceré, tutti gli impieghi civili e militari fossero concessi esclusivamente a Sardi;
4. che si istituisse un ministero per gli affari della Sardegna a Torino;
5. che si istituisse a Cagliari un Consiglio di Stato che il viceré avrebbe dovuto consultare per l’ordinaria amministrazione.proprio per vedere riconosciuto il loro ruolo, le loro capacità.
Chiedevano quindi che fosse riconosciuto il ruolo anche dei sardi all’interno del proprio territorio, che la Sardegna non fosse semplicemente una colonia del Piemonte e che i sardi non dovessero obbedire e basta (a degli “stranieri”). La risposta che viene data alle cinque domande è evasiva e incominciano così, il 28 Aprile del 1794 le sollevazioni dei cagliaritani contro il governo viceregio: vengono cacciati i Piemontesi (oggi la data è festa “nazionale” sarda, “sa die de sa Sardigna”, che ricorda appunto quest’avvenimento).
Il governo fu assunto dalla Reale Udienza d’intesa con gli Stamenti e emersero linee politiche differenti (moderati - novatori - posizioni estremiste), ma furono proprio questi contrasti fra le opposte fazioni a causare avvenimenti drammatici e a far emergere la figura di Giovanni Maria Angioy il quale diventa esponente radicale, ancor più di quanto forse non volesse lui stesso, spinto dagli avvenimenti. Questi avvenimenti e la sua figura li metterete a fuoco successivamente.
I Savoia travolti e scacciati, prima da Nizza e dalla Savoia e poi dallo stesso Piemonte nel 1999 si rifugiarono in Sardegna. Qui nonostante tutto, quando la regina arriva a Cagliari riceve un donativo da parte degli Stamenti (la regina infatti era dovuta fuggire dal Piemonte senza i propri gioielli) un donativo proprio per riconoscere la buona volontà del popolo sardo, il riconoscimento della funzione del re e del valore che ha il potere regio, un gesto quindi tutt’altro che rivoluzionario.
Da parte dei sardi il periodo di permanenza dei reali a Cagliari si è dimostrata una grande capacità di accoglienza. Ed ecco i provvedimenti che mirano ad una modernizzazione dell’isola, ad affrontare anzitutto la questione della proprietà.
Già nel 1804 c’era stata la cosiddetta Società Economica Agraria (istituita per volontà dell’allora Viceré sabaudo Carlo Felice, con l’obiettivo di creare un’Accademia che funzionasse come centro propulsore, in grado di indagare, studiare e divulgare le soluzioni idonee a risollevare le sorti dell’economia isolana.
La Reale Società operò in tutta l’Isola fino al 1862 e non si occupò solo di agricoltura. Fu, al contrario, artefice di un vero e proprio progetto di modernizzazione basato sulla liberalizzazione del mercato e la promozione dell’iniziativa economica individuale). Ma il vero rivoluzionamento si ottenne con l’Editto delle Chiudende del 1820, col quale si autorizzava la recinzione dei terreni che per antica tradizione erano fino ad allora considerati di proprietà collettiva, introducendo di fatto la proprietà privata dei terreni comunitari.
L’editto mirava a favorire la modernizzazione e lo sviluppo dell’agricoltura locale, anche se creò molti problemi per il modo in cui fu attuata la recinzione, che riportiamo nei punti principali:
“Il Re Carlo Emanuele, Avolo mio d'immortal memoria, fra le molte sue cure pel rifiorimento della Sardegna, manifestò il pensiero di favorire le chiusure dei terreni; principalissimo mezzo d'assicurare, ed estendere la proprietà, e così promuovere l'agricoltura. Convinti Noi di questa verità, già soggiornanti nell'Isola, Ci siamo applicati ad incoraggiare sì gran miglioramento, e l'anno scorso abbiamo poi creduto bene d'annunziare la legge, che si stava d'ordine nostro preparando.
I. Qualunque proprietario potrà liberamente chiudere di siepe, o di muro, o vallar di fossa, qualunque suo terreno non soggetto a servitù di pascolo, di passaggio, di fontana, o d’abbeveratoio…
Naturalmente questo provocò una serie di rivolte, perché i più colpiti dalla nuova legge furono naturalmente i pastori che, per ottenere i pascoli, dovettero pagare canoni di affitto sempre più alti e talvolta addirittura esosi, con conseguenti liti, tumulti, scontri armati, fomentati spesso dai feudatari che vedevano con preoccupazione sorgere un nuovo ceto di agricoltori, in contrasto con i loro privilegi e la loro potenza. Le lotte si trascinarono per oltre un decennio e il governo piemontese, sebbene tardivamente, perché ormai si erano consolidate situazioni di fatto difficilmente modificabili in favore dei più astuti e decisi fra gli agricoltori, ordinò nel 1833 la sospensione delle chiusure.
C’era quindi un diverso atteggiamento tra Comuni e lo Stato, per cui tutti i cittadini sardi non erano trattati in tutti i territori allo stesso modo perché lo stato imponeva delle norme rigide mentre i Comuni facevano applicare le norme in modo più elastico e avevano un più forte rispetto dei diritti del singolo.
Si vede che l’Editto delle chiudende è inapplicabile alla società sarda ma dà comunque un impulso alla proprietà, con un’esenzione fiscale per cinque anni e la diminuzione, di 1/5, dei canoni per chiusura. Viene dunque applicata una prima divisione dei terreni comunali che non poteva tuttavia riguardare i terreni a pascolo comune. Questa divisione era proporzionale al numero degli abitanti presenti in quel determinato comune e anche alle capacità lavorative.
Possiamo parlare di primi rilevamenti catastali, quindi di riforma: essa incontrò fasi di contestazioni, di speranze, di opposizioni ma soprattutto di dubbi sulle dimensioni massime dei lotti, sulle procedure da seguire per le assegnazioni, su chi avesse diritto alle divisioni (comprese le donne?).
L’intervento centrale furono una serie di operazioni geodetiche sotto il controllo governativo che iniziarono nel Gennaio del 1841 in paesi quali Uta, Assemini, Sestu ecc.
Il 13 marzo del 1841 venne data un’autorizzazione governativa alle ripartizioni comunali senza misurazioni, che venivano operate dai cosiddetti “probi uomini”, se non vi fossero contestazioni. Questa decisione aveva però il difetto di riproporre i contrasti presenti nelle comunità e infatti fino al 1843 ci furono ben pochi progressi.
Iniziarono dunque degli aperti rifiuti delle divisioni, prima da parte grandi proprietari (arricchitisi col sistema feudale e dunque suoi accaniti difensori) di terre e di bestiame, che incitarono infatti i pastori alla ribellione, con rivolte che si verificarono in diversi paesi della Sardegna nella metà dell’800 (Ossi, Gonnosfanadiga, Nuraminis, Selargius ecc). l’unica misura non punitiva attuata fu la riserva temporanea di terreni comunali per l’uso del pascolo comune o altri ademprivi. Inoltre va detto che le ribellioni diminuirono dopo che il governo escluse coloro che si rifiutavano di accettare le divisioni dalle successive ripartizioni. Dal 1848 però le misurazioni diventano un’esigenza primaria con l’entrata in vigore della normativa generale per tutto il Regno.
Un altro problema da affrontare in Sardegna negli anni che vanno da 1835 al 1838 fu l’abolizione della giurisdizione feudale e il problema del riscatto dei terreni. Di ciò si occuparono i sovrani Carlo Felice e Carlo Alberto di Savoia. Tra le altre riforme del re Carlo Felice, la più importante fu l’estensione alla Sardegna del nuovo Codice Civile, con l’abrogazione della Carta de Logu, rimasta sino a quel momento legge generale del regno.
Il re Carlo Alberto avviò invece l’abrogazione degli istituti feudali. Alla fine degli anni Trenta il feudalesimo fu formalmente abolito. Tuttavia il riscatto monetario dei feudi sottratti all'aristocrazia e all’alto clero fu calcolato non sulla base del valore reale dei terreni, ma in base alla soddisfazione degli interessi degli ex feudatari. Tale riscatto per di più fu fatto gravare, sotto forma di esazioni tributarie, sulle popolazioni.
Questa vendita dei terreni demaniali portò tuttavia una svolta capitalistica nelle campagne, e una conseguente espansione della proprietà privata: questa poteva avvenire in una triplice modalità : attraverso l’assegnazione di terreni comunali, attraverso l’acquisto di fondi demaniali da parte di chi disponesse di capitali, e infine attraverso un sistema di enfiteusi, una via di mezzo per i borghesi interessati ma privi di capitali adeguati. Sul fondo l’enfiteuta ha la stessa facoltà di godimento che spetta ad un proprietario ma con due obblighi specifici: 1 di migliorare il fondo; 2 di corrispondere al nudo proprietario (“concedente”) un canone periodico (una somma di danaro ovvero una quantità fissa di prodotti naturali), per la cui determinazione l'autonomia delle parti è vincolata dai criteri previsti dalle leggi speciali in materia. Si riscontrò anche un’inopportunità della vendita dei terreni estesi ai feudatari come compenso per la perdita dei diritti feudali, infatti con l’Editto del 21 Agosto 1838 la decisione regia fu presa in base a tre scopi principali: assicurare alla corona i beni feudali; soddisfare il bisogno di terra dei comuni; pagare i debiti ai feudatari con cedole di debito pubblico.
Dal 1848 al 1851 vennero attuate altre importanti riforme: con una serie di disposizioni, non sempre attuate e attuabili, vennero aboliti sia la libertà di pascolo sia i diritti di ademprivio. Per esempio con la legge del 15 Aprile 1851 si vietò il pascolo nei terreni privati e si istituì l’imposta fondiaria.
I diritti di ademprivio, ad esempio, che permettevano nelle distese boscose di far pascolare il bestiame, di raccogliere legna sughero ghiande e talvolta di seminare; e nelle vidazzoni/paberile di agevolare la pastorizia e di fungere da valvola di sicurezza per gli strati più poveri della popolazione; vennero aboliti formalmente dopo il 1848 ma continuarono ad essere usati fino al 1859 quando avvenne l’abolizione totale e la conseguente divisione dei terreni tra Comuni e Stato.
Ma quale uso ne fece lo Stato? Con la legge del 4 Gennaio 1863 lo Stato concesse a una società inglese i diritti sulle riserve boschive e sui terreni con l’impegno della costruzione di una linea ferroviaria, decisione che provocò inizialmente una resistenza dei comuni e dei privati interessati ma successivamente una rinuncia generale della società alla ribellione.
Con le “leggi speciali per la Sardegna” vennero assegnati ai Comuni i boschi, con l’obbligo di conservarli e curarli, vennero create le Casse Ademprivili con una successiva quotizzazione e destinazione dei terreni ex ademprivili e una concessione di mutui come incentivo alla costruzione di case coloniche.
Tutto ciò ebbe come sola conseguenza la distruzione di foreste secolari per esigenze di bilancio e altri “inconfessabili interessi”.
Vediamo poi una panoramica delle città più importanti della Sardegna nel periodo trattato con il numero di abitanti: le più grandi erano Cagliari (27.989 abitanti), Sassari (all’incirca 24.500) seguite da Iglesias, Tempio, Ozieri, Alghero.
Abbiamo visto il passaggio dalla proprietà imperfetta-feudale della terra a quella perfetta-borghese, che avrebbe garantito risultati migliori rispetto all’economia feudale, permettendo la chiusura dei terreni privati e l’introduzione di colture specializzate.
E’ stata fornita una tabella che riporta le monete presenti in Sardegna nella prima metà del XIX secolo c’erano quelle in oro (Carlino, mezzo Carlino, Doppietta), quelle in argento ( Scudo, mezzo Scudo, un quarto di Scudo), quelle in rame argentato (Reale, mezzo Reale), quelle in rame (Soldo, mezzo Soldo, Cagliarese) e infine la carta moneta ( da 20, 15 o 5 Scudi).